Recensione integrale di Margherita Caronia, dal giornale TIMEOUT del 19 dicembre 2020.
“Questo romanzo è un’opera di fantasia, seppure popolata da personaggi realmente esistiti e avvenimenti accaduti nella storia”.
È con tale premessa, a precedere la stessa nota introduttiva del presidente della fondazione Amedeo Modigliani, Fabrizio Checchi, che l’autrice Professoressa Giovanna Strano ha voluto fissare l’abbrivio di “Parlami in silenzio Modi”, la sua nuova opera letteraria.
In oltre 270 pagine, di formato corrispondente a circa metà di un foglio A4, la Strano conferma in questo romanzo le linee culturali con cui aveva impostato i suoi bei libri precedenti, frutto di ricerche, studi, analisi è… fantasia, focalizzando stavolta le sue indubbie capacità sulla figura di Amedeo Modigliani (12.7.1884 – 24.1.1920), pittore e scultore noto come Modì, il quale dall’inizio alla fine del libro guida il lettore parlando in prima persona, fin dal giorno della sua nascita, per rivelare una precisa identità: quella di un giovane livornese, di famiglia ebrea, amante dell’arte e assetato di sapere.
Come ha affermato il presidente Checchi, l’opera di Giovanna Strano riesce nell’intento di costituire un tributo all’uomo prima che all’artista poi conosciuto nel mondo: ecco perché la sua nota introduttiva si conclude con l’omaggio all’uomo “che ha fatto dell’Arte la sua ragione di vita”.
Dopo gli studi compiuti a Livorno, a Firenze e a Venezia, ad apprendere i rudimenti della pittura, Modigliani si stabilì dal 1906 a Parigi in coincidenza -viene ricordato nel libro – con la chiusura del caso di Alfred Dreyfus, capitano alsaziano pure lui di origine ebraica. È quello per l’autrice lo spartiacque della breve vita di Modì, pur dopo la considerazione dello stesso sul 1900, “anno della mia prima morte… anno della mia rinascita”.
Parigi, per chi come lui era già vocato all’arte e ad apprendere dai maestri che l’avevano preceduto, rappresentava “un atelieur a cielo aperto”. Oltre che Pablo Picasso, a cui concesse un piccolo prestito, nella vita di Modì entrarono i Grandi del periodo di inizio Novecento al “Lapin Agile”: i poeti Guillaume Apollinaire e Max Jacob, i pittori André Derain e Maurice Utrillo. Senza farsi coinvolgere in prima persona nei movimenti artistico-culturali che nella capitale francese andavano per la maggiore (espressionismo, fauvismo, futurismo, puntinismo), Modì andava definendo la propria caratura d’artista ora aprendosi anche alla scultura. Un’influenza non secondaria ebbe a Parigi, specie nei quartieri Montparnasse e Montmartre, il fatto che Modì conobbe anche le opere del grande Paul Cézanne (“la sua arte mi aveva letteralmente rapito”), sicché il livornese capì “come la pittura potesse diventare un mezzo attraverso il quale l’individuo conosce il mondo”.
E le grandi esperienza a contatto con autentici artisti fecero maturare l’arte propria di Modì, talvolta in ambiente denso di fumo d’oppio, talvolta nell’inebriatura di narghilè, talaltra nell’atmosfera esilarante dell’assenzio.
L’interesse per le donne da rappresentare nell’arte gli derivò direttamente dall’esperienza di vita, per cui nel romanzo conosciamo Maud Abrantès, Anna Achmatova, Beatrice Hastings, Jeanne Hébuterne, Lunia Czechowska, tutte diverse, tutte di differenti nazionalità. La scoperta e il contatto con i Grandi, la scultura africana, poi del nascente cubismo, imposero alle figure rappresentate da Modì una grazia è un’espressione melanconica che si ritrovano nelle sculture realizzate negli anni dal 1900 al 1914 sotto l’influenza di Constantin Brâncuși.
E intanto egli ascoltava note di politica, religione, nazionalismo e guerre, povertà, ma anche di moda e di cultura: “Tutti argomenti che mi avrebbero costretto a mettere i piedi per terra, scendendo dalla nuvola creativa nella quale mi ero arrampicato”.
Iniziava in quel periodo la crisi della salute di Modì, tornato nella città natale nell’estate del 1909 per festeggiare i 25 anni, per una breve parentesi prima di tornare a Parigi. Nel frattempo, quasi come nel film “Midnight in Paris” in cui per un incantesimo un giovane incontrava i Grandi di quello stesso periodo, la vita della Ville Lumière proponeva a Modì anche la conoscenza dei versi di Paul Verlaine e “l’amore tormentato e passionale per il giovane Arthur Rimbaud” e del contrasto fra i boulevards e i palazzi neoclassici e la città più povera delle bettole.
Il furto della “Gioconda” il 22.8.1911 dal museo del Louvre, precedette un peggioramento della salute di Modì nel breve soggiorno in Normandia.
Si giungeva in ogni caso, non senza sofferenze tra varie figure attorno a lui, allo sbocco, apprezzato nella modernità, dell’arte di Modì: il gusto per l’allungamento e la stilizzazione si affermava infatti nelle opere della sua maturità (perlopiù ritratti di donne, bambini e della maggior parte dei suoi amici, e nudi femminili) in cui sostanzialmente si evidenziava la forza espressiva, ritmica e costruttiva della linea.
Fu l’apoteosi per Modì (“il sorgere di una nuova vita”), per il quale il 1917 fu anno fortunato anche per i sentimenti per la presenza di Jeanne Hébuterne, 19 anni, “piccola e caparbia”, da lui accostata alla Venere del Botticelli (“sembrava una fata”). E le pagine del libro della Strano che la pongono al centro della vita di Modì (innamoratissimo, ricambiato) sono fra le più belle dell’intero romanzo. Egli, verso quella splendida musa, si sentiva amico, amante, padre.
Nelle pagine seguenti, non prive di sorprese, si assiste al progressivo aggravarsi della meningite tubercolare che stava “disintegrando le mie membra”, tutto – con una sola grande gioia – un avvicinarsi alla fine, all’Eterno, fino all’ultima battuta trattenendo la mano di Lunia nell’ossimoro del titolo: “Fermiamoci qui. Parlami in silenzio”.