Vincent van Gogh è molto attento alla pittura dei suoi predecessori e riscopre negli artisti olandesi del ‘600, come Jan Vermeer, una strada da seguire, con profonda stima.
La sua voglia di conoscere lo porta a perdersi nei musei, rimanendo estasiato dinnanzi all’arte di grandi maestri che ammira.
Di fronte a essi si sente incompiuto e piccolo, percependo l’incapacità di raggiungere la perfezione stilistica del passato. Nella realtà dei fatti Vincent non vorrà mai inseguire le regole stringenti della tecnica, in quanto suo unico intento è riuscire a esprimere i sentimenti, le sensazioni dell’essere umano che ha di fronte, nel quale riflette se stesso in uno slancio espressivo inconsulto e celato in ogni pennellata. Sembra che il pittore voglia raggiungere la perfezione attraverso l’espressività del modello, strumento ritenuto più adeguato per sfiorare la pienezza dell’anima. Van Gogh si completa nell’altro e trova appagamento nel contatto con l’umanità.
Sia Van Gogh che Vermeer entrano nei loro dipinti senza essere visibili, quali osservatori nascosti dell’intimità dell’essere, attenti ad afferrare ogni più piccola espressione dei volti, dell’anima. Entrambi dipingono l’umanità accarezzandola, mostrando palesemente sulla tela non la realtà dei fatti, ma la visione che si pone innanzi all’artista espressa attraverso il punto di vista personale, quale narratore del tempo e degli uomini.
“Conosci un pittore di nome Vermeer, che, ad esempio, ha dipinto una bellissima signora olandese, incinta? La tavolozza di questo strano pittore è blu, giallo limone, grigio perla, nero, bianco. Naturalmente, nei suoi rari quadri ci sono, a rigore, tutte le ricchezze di una tavolozza completa, ma l’accostamento del giallo limone, blu chiaro, grigio perla è la caratteristica di lui come il nero, bianco, grigio, il rosa è di Velázquez” (lettera di Van Gogh all’amico Bernard, Arles 29 luglio 1888).
“Nello studio di Rembrandt, l’incomparabile sfinge, Vermeer di Delft ha trovato questa tecnica estremamente solida che non è stata mai superata. Che oggi….. non vediamo l’ora di scoprire. Oh, so che stiamo lavorando e discutendo del colore mentre nel passato studiavano il chiaroscuro. Cosa valgono queste differenze quando alla fine si tratta di esprimersi con forza?” (lettera di Van Gogh a Bernard, Arles 5 agosto 1888).
“Mio caro Theo, ho già scritto questa mattina e sono andato a continuare a lavorare su un dipinto di un giardino soleggiato. Poi l’ho riportato indietro e sono uscito di nuovo con una tela bianca e anche questo è fatto. E ora ho voglia di scriverti di nuovo. Perché non ho mai avuto tanta fortuna; la natura qui è straordinariamente bella. Tutto e ovunque. La cupola del cielo è di un blu meraviglioso, il sole ha un pallido splendore di zolfo ed è morbido e affascinante, come la combinazione di blu celeste e giallo nei dipinti di Vermeer di Delft . Non riesco a dipingere magnificamente come lui, ma mi assorbe così tanto che mi lascio andare senza pensare a nessuna regola” (lettera di Van Gogh a Theo, Arles 18 settembre 1888).
“E così sono giunto al capolinea. Instancabile ho inseguito un ideale, tentando di esprimermi, di essere accettato per quello che sono, senza maschera, senza veli, cercando di rendere palese qualcosa che è impalpabile, indefinibile. Con presunzione ho creduto fosse possibile rappresentare la mente, il pensiero, l’emozione, un sentimento; ho raffigurato l’anima delle persone e delle cose, la più intima essenza. E forse ci sono riuscito, realizzando qualcosa di cangiante in relazione all’individualità che vi si accosta. Tutto questo è molto più grande di me, piccolo essere insulso, tracotante, debole, timoroso. Non ho più coraggio, sono senza forze…”
(brano tratto dal romanzo “Vincent in Love”, Cairo Editore)